Settimana «Laudato si’», saper agire con giustizia

L’approccio rapace è ansia di possesso che crea squilibri non più sostenibili

Con Genesi, alla ricerca della ragione di tutto, cominciò al liceo la mia conversione da superficiale a consapevole, in un confronto tra scienza e fede che è la cosa più bella e meno riconosciuta oggi. Per questo non è giusto considerare non essenziale l’attenzione alla creazione, che papa Francesco ci ha suggerito a partire dalla Laudato si’, quasi che la salvezza dell’anima non avesse a che fare pure con quella dei corpi. La “Settimana” che si è conclusa il 29 maggio ha festeggiato il settimo anniversario dell’enciclica mostrandone il pensiero integrale che connette creato, creature e vita eterna.

“Ora et labora”, diceva Benedetto, perché da quando il piano di Dio si è manifestato così, di questo viviamo: del fatto che la Parola si fa carne, e questa incarnazione provoca una creazione continua, ossia una generatività che è ancora in corso, che ogni giorno pro-voca un mondo nuovo. La terra è ‘madre’, di viventi e mortali, e chi ha tra le mani il nascere e il morire degli umani ha a che fare con storie e destini. Questa creazione in mutazione continua, è metafora della vita, più volte Gesù nel Vangelo prende figure dalla natura, come i fiori del campo o gli uccelli del cielo, per fare scuola di ulteriorità e analisi del profondo. Proprio come Benedetto XVI dice, che dovremmo essere capaci di ecologia interiore, che ci liberi dall’inquinamento dei pensieri.

Tutto è connesso, e tutto è in movimento. L’uomo è parte, il carisma più vero, come diceva san Tommaso, chiamato a camminare insieme alle creature, a ricevere la vita e a custodirne il dono. Proprio questa responsabilità dell’oikos, della casa comune e non solo del proprio orto, è la nostra vocazione: «crescete e moltiplicatevi». Questa passione, ci aiuta a non sentirci solo individui isolati, scissi pure nell’era della globalizzazione, marionette passive di un gioco più grande di noi. E ci provoca a mettere in discussione la modernizzazione che ci è stata pubblicizzata come mito, incapace di produrre una qualità della vita che sia davvero dignitosa. Le similitudini del Vangelo ci dicono l’attenzione che ha Gesù per il mondo in cui vive, e l’invito più volte ripetuto a pazientare rispetto ai dinamismi della natura, come nelle parabole del seme, ci dice il rispetto che oggi non abbiamo. C’è un significato simbolico nel reale delle cose evangeliche, come i segni del vento e del tempo che Gesù segnala per riuscire a interpretare noi stessi, che ci dice come proprio ciò che ci circonda diventa immagine del mistero in cui siamo immersi, prova di una verità che c’è.

Creato è sinonimo di dato, ossia offerto più che prodotto. Ma se non diciamo queste cose nelle nostre catechesi, di un progetto sul mondo che va oltre e dice un mondo ulteriore non irreale, di cosa ci preoccupiamo, forse solo del numero dei ragazzi di catechismo in calo? La televisione è piena di fantasmi e draghi vari, e noi non diamo spazio a una sana cosmologia, o all’escatologia che ripropone l’unica cosa che interessa, la promessa di una vita eterna? E non possiamo ridurci alla tentazione espressa dinanzi a Gesù in croce, quel «salva te stesso» che non tiene conto che la salvezza non è individuale. Un mondo che faceva illudere di dare la vita, passa invece dal Covid alla guerra, dal vaiolo delle scimmie alla carestia di risorse. Passiamo dalla quarantena sanitaria a quella terrestre, se è vero che da alcune parti del pianeta devi fuggire, migrante in paesi estranei. Non abbiamo a disposizione uno spazio e un tempo infiniti, dobbiamo imparare la misura. E capire pure che una salvezza vera non può non essere pure una salvezza storica. Dentro una visione sinergica e non parziale, che metta in continuità creazione e redenzione. Un approccio rapace alla vita ci condanna, gratifica la nostra ansia di possesso ma crea squilibri non più sostenibili. Dio chiede solo questo: relazioni di giustizia.

Gianni Righetti, delegato episcopale per la pastorale

 

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