Un lavoro che guardi al Vangelo

Primo maggio e San Giuseppe, un’unica festa che chiede scelte e atteggiamenti per la dignità di donne e uomini

Il 1° maggio è la festa dei lavoratori. È pure la festa di San Giuseppe lavoratore (o artigiano). Molti si ricordano solo dell’una o dell’altra, ma è bene mantenere la loro stretta relazione, anzi viverle come una festa unica. Che San Giuseppe, questo giovane chiamato nella fede a una straordinaria avventura, fosse un lavoratore è noto.

Ma la sua vita professionale non fu libera da incertezza e discontinuità, dal dover ricominciare daccapo, esperienze che lo accomunano a tanti lavoratori autonomi e operatori economici di oggi e di ogni tempo. Prima la lunga trasferta a Betlemme (settimane senza reddito), poi la fuga in Egitto, cioè la condizione del profugo migrante, che cerca di salvare la famiglia da un potere omicida (Erode della strage degli innocenti).

Così la necessità di trovare da vivere in Egitto (la terra da cui i suoi antenati erano esodati), e poi di nuovo il dover ricominciare da capo a Nazareth, dove intanto avviamento e mercato si erano persi. Un uomo che conosce la fatica, la bravura, l’affidabilità del lavorare bene, ma non risparmiato dall’esperienza della crisi. Quelle crisi che molti lavoratori hanno sperimentato a causa della Pandemia.

Il Giuseppe lavoratore è lo stesso uomo che nel linguaggio tradizionale viene definito “padre putativo” di Gesù. Era un padre affidatario, l’uomo scelto tra tutti nel mondo perché allevasse, proteggesse, educasse, introducesse alla realtà, insegnasse un mestiere a questo Dio bambino.

La “Sacra famiglia” era una famiglia monoreddito, come era consueto allora e come è purtroppo diffuso anche oggi, se consideriamo i livelli bassissimi dell’occupazione femminile in Italia. È vero che alcuni sostengono che le donne dovrebbero essere libere di decidere se dedicarsi totalmente ai figli. Questo comporterebbe salari e stipendi più elevati e più stabili di quelli che conosciamo in molti casi. Sappiamo che in Italia molti salari e stipendi sono più bassi a parità di mansioni di quelli in altri paesi europei. Negli ultimi decenni la situazione non è migliorata, anche la questione del salario minimo non è risolta, persistono situazioni inaccettabili di chi pur lavorando resta povero.

Maria era una casalinga, ma abbiamo imparato (o forse dobbiamo imparare meglio) che anche il lavoro della donna in casa è un lavoro impegnativo e produttivo. Maria cucinava senza gas, lavava i panni senza lavatrice, spazzava casa senza scope elettriche, cuciva senza macchina da cucire, lavorava lana e lino, apprestava lucerne senza elettricità, andava a riempire d’acqua le sue brocche. Maria non era meno lavoratrice del lavoratore Giuseppe.

E non è difficile immaginare il ragazzino che dava una mano all’una o all’altro, che imparava a lavorare, che conosceva che posto ha il lavoro nella vita umana. Del resto la storia della salvezza, come la leggiamo nella Bibbia, e come la viviamo noi oggi, è in larga parte una storia di lavoratori, di persone chiamate mentre lavorano la terra, o pascolano il bestiame o esercitano la pesca, o riscuotono tasse.

Naturale perciò che anche quest’anno i vescovi italiani abbiano affidato la loro vicinanza di pastori al mondo del lavoro nel loro messaggio per il 1° maggio, intitolato “La vera ricchezza sono le persone. Dal dramma delle morti sul lavoro alla cultura della cura”. Non è un messaggio sentimentale, né tantomeno consolatorio. Ma, è un messaggio realistico e crudo, che non consente evasioni.

«Le conseguenze della crisi economica gravano sulle spalle dei giovani, delle donne dei disoccupati, dei precari, in un contesto in cui alle difficoltà strutturali si aggiunge un peggioramento della qualità del lavoro», scrive la Commissione episcopale per i problemi sociali e il lavoro, la giustizia e la pace, di cui fa parte il vescovo Gianrico Ruzza.

Il pensiero dei pastori va in particolare a chi ha perso la vita nel proprio lavoro e a chi se l’è tolta perché disoccupato: «la fiducia nel Signore amante della vita e la nostra solidarietà siano il segno di una comunità che sa “piangere con chi piange” (cf Rm, 8, 15) e di una società che sa prendersi cura di chi, all’improvviso, è stato privato di affetti e di sicurezza economica»

La preoccupante situazione del mercato del lavoro è affrontata dai vescovi con parole schiette: «La nostra coscienza è interpellata anche da quanti sono impegnati in lavori irregolari o svolti in condizioni non dignitose, a causa di sfruttamento, discriminazioni, caporalato, mancati diritti, ineguaglianze. Il grido di questi nuovi poveri sale da un ampio scenario di umanità dove sussiste una violenza di natura economica, psicologica e fisica in cui le vittime sono soprattutto gli immigrati, lavoratori invisibili e privi di tutele, e le donne, ostaggi di un sistema che disincentiva la maternità e “punisce” la gravidanza con il licenziamento». Un esame di coscienza ci invitano a fare i vescovi, riguardo a quello che tutti possiamo fare insieme.

L’adesione alla Dottrina sociale della Chiesa e prima ancora l’insegnamento del Vangelo ci chiedono di testimoniare con la nostra vita la concretezza di scelte e comportamenti coerenti. La pastorale sociale e del lavoro di Porto-Santa Rufina ribadisce la sua disponibilità ad assumere l’iniziativa di un dialogo, di un “tavolo” si dice, che coinvolga sindacati, associazioni di imprenditori, associazioni di promozione sociale e anche le amministrazioni locali, per cercare e intraprendere insieme le strade possibili per il lavoro e la giustizia sociale.

Vincenzo Mannino, incaricato pastorale sociale e del lavoro

 

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