Don Magnani illustra al clero il nuovo Messale

Il sacerdote già direttore dell’ufficio liturgico nazionale ha coordinato nei suoi due mandati la redazione finale del testo

Relatore al ritiro del clero di Porto-Santa Rufina di martedì 15 dicembre è stato don Franco Magnani. Il sacerdote già direttore dell’ufficio liturgico nazionale ha coordinato nei suoi due mandati la redazione finale del nuovo Messale romano. Lazio Sette lo ha incontrato a margine dell’intervento.

Perché una nuova edizione del Messale romano?

Come scrivono i vescovi italiani «La terza edizione del Messale Romano in lingua italiana, dopo quasi quarant’anni dalla seconda edizione del ı983, è motivata fondamentalmente dalla necessità di adeguare il libro liturgico all’editio typica tertia latina del Missale Romanum (2002 e 2008) che contiene variazioni e arricchimenti rispetto al testo dell’editio typica altera del ı975 (Presentazione CEI, n. 1). Non si tratta pertanto di un nuovo messale, ma del Messale riformato dal Concilio Vaticano II, promulgato da papa Paolo VI e riveduto da papa Giovanni Paolo II.  La pubblicazione del Messale offre alle nostre comunità cristiane la possibilità di una attuazione più matura della riforma liturgica e del Concilio e soprattutto di riscoprire il dono del celebrare. Papa Francesco in Evangelii gaudium ci ricorda che siamo chiamati a essere “Chiesa in uscita” a partire da quella «memoria grata» che è la celebrazione dell’Eucaristia.

Chi è stato impegnato nella preparazione del testo?

Si è trattato di un lavoro complesso e travagliato, iniziato nel 2002 dopo la pubblicazione della terza edizione latina. Sono stati a più riprese coinvolti tutti i vescovi italiani, soprattutto  i membri delle Commissioni Episcopali per la Liturgia che si sono alternate negli anni. I vescovi si sono avvalsi  del contributo di liturgisti, biblisti, teologi, musicologi, storici, italianisti. Nel quadro delle possibilità dischiuse da Motu proprio di papa Francesco Magnum principium (1917) si è mirato a offrire una traduzione «integra e fedele», che, tuttavia, tenesse conto della comprensione dei destinatari. 

Quali i principali cambiamenti?

È cambiata la traduzione di molte espressioni delle Preghiere eucaristiche, come pure delle altre orazioni. Invece, per quanto riguarda l’assemblea possiamo registrare solo tre cambiamenti di rilievo. Nel Confesso si è adottato un linguaggio inclusivo aggiungendo “sorelle” a “fratelli”. Nel Gloria il cambiamento è stato dettato da una maggior fedeltà al testo biblico di riferimento (Lc 2, 14). Tuttavia, per favorire la cantabilità dell’inno, al posto dell’espressione “pace in terra agli uomini di buona volontà” non si è adottata alla lettera la traduzione utilizzata nella Bibbia Cei del 2008,  ma «pace in terra agli uomini, amati dal Signore». Infine, nel Padre Nostro, l’espressione «non abbandonarci alla tentazione» riprende la traduzione della Bibbia Cei, diffusa già da oltre un decennio. Non si deve dimenticare l’aggiunta di un “anche”: “come anche noi li rimettiamo”. Le nostre comunità dovranno essere educate a far propri solo questi tre piccoli cambiamenti. Per il resto, i vescovi hanno scelto di lasciare invariate tutte le risposte dell’assemblea. Infatti, come ricordava sapientemente l’allora cardinale Josef Ratzinger: «niente è più dannoso in liturgia che rimettere sempre tutto in discussione». Vale la pena osservare come alcune variazioni mirino non solo a recuperare una maggior aderenza al testo latino, ma soprattutto la matrice biblica originaria. Emblematico appare il cambiamento nella Preghiera Eucaristica II. Là dove nell’edizione del 1983 si diceva «santifica questi doni con l’effusione del tuo Spirito» in quella attuale, in stretta aderenza al testo latino del Messale, che ripropone l’antichissimo testo della Traditio apostolica, ascoltiamo «santifica questi doni con la rugiada del tuo Spirito». Anche in questo caso possiamo toccare con mano il radicamento profondamente biblico del linguaggio della liturgia; infatti, nei profeti (ad es. Osea, Zaccaria) per indicare l’azione dello Spirito di Dio viene utilizzata spesso l’immagine della rugiada.  Come la Bibbia anche la Liturgia privilegia il concreto all’astratto, l’immagine plastica al concetto. 

Perché è problematico il linguaggio concettuale?

La liturgia è estremamente ricca anche sotto il profilo concettuale; essa, infatti, è espressione della fede della Chiesa. Ma la liturgia deve guardarsi dal diventare una lezione di teologia o di catechismo. Per dirla con una battuta: la celebrazione non deve diventare una “cerebrazione”! L’astrazione predispone alla distrazione. Non deve prevalere innanzitutto la preoccupazione di trasmettere concetti o precetti. La liturgia ci fa fare esperienza del mistero del Dio nascosto nei secoli che, ora, a noi è stato rivelato e comunicato in Cristo Gesù per la potenza dello Spirito Santo. La liturgia è il linguaggio più adeguato per “dire Dio”, perché non lo riduce ad un “oggetto” della nostra riflessione. Nella celebrazione Dio si fa nostro interlocutore, in un dialogo fatto di “gesti e di parole”, che diventa incontro d’amore. In questo senso la liturgia è il linguaggio dell’amore. In tale orizzonte è importante riscoprire le potenzialità di tutti i linguaggi - verbali e non verbali - della liturgia. La singolarità dell’azione simbolico-rituale propria della liturgia ha la prerogativa di fare spazio all’agire salvifico di Dio. Per questo è importante accogliere con consapevolezza e docilità quanto la Chiesa ci offre nel Messale evitando ogni protagonismo e indebite forme di creatività.

Un’occasione per dare nuova linfa alla preghiera e alla missione della Chiesa.

Come ci ricorda papa Francesco: «la Chiesa evangelizza e si evangelizza con la bellezza della liturgia» (Evangelii gaudium , n. 24).  Mi auguro che la pubblicazione del Messale possa far crescere la qualità delle nostre celebrazioni. L’ars celebrandi che i vescovi ci chiedono di promuovere non riguarda solo i preti, ma coinvolge l’intera assemblea. Non è una questione meramente estetizzante, ma di sostanza, perché si tratta di riscoprire la presenza viva e operante del Signore nella sua Chiesa. Non celebriamo solo per ottenere delle “grazie”, ma che il celebrare stesso è una grazia. Anche noi come Pietro, Giacomo e Giovanni dovremmo poter dire: «Rabbì, è bello per noi essere qui» (Mc 9, 5).

Simone Ciampanella

foto Filippo Lentini

(18/12/2020)

 

Stampa news