Samaritanus Bonus: No all'eutanasia

L’eutanasia è un crimine contro la vita umana, perché l’uomo sceglie di causare direttamente la morte di un altro essere umano innocente

E' stato notificato il testo della lettera “Samaritanus bonus”, della Congregazione per la Dottrina della Fede, sulla cura delle persone nelle fasi critiche e terminali della vita. Le venti dense cartelle recano le firme del cardinal prefetto Luis Ladária e del segretario mons. Morandi, apposte il 14 luglio 2020 dopo l’approvazione del Papa ricevuta il 25 giugno. 

Il documento consta di cinque parti – l’ultima delle quali preminente – precedute da una Introduzione e seguite da una Conclusione: in una sapiente sinfonia di categorie squisitamente teologiche e filosofiche (soprattutto debitrici alle correnti dell’esistenzialismo e del personalismo), la Lettera invita la Chiesa e l’umanità a concepirsi come “comunità sanante”

perché il desiderio di Gesù, che tutti siano una sola carne, a partire dai più deboli e vulnerabili, si attui concretamente.

Ladária impronta ad Amoris lætitia il tema della “unità di dottrina e di prassi”, che egli ritiene essere quanto mai necessaria in materia. Lo scopo della Lettera è dunque:

  • ribadire il messaggio del Vangelo e le sue espressioni come fondamenti dottrinali proposti dal Magistero […];
  • fornire orientamenti pastorali precisi e concreti […].

La condanna “definitiva” di ogni forma di eutanasia

Va da sé che soprattutto su questi ultimi – è facile immaginarselo – si appunterà l’attenzione (e la polemica) dei media: fin dall’inizio della V parte, infatti, si legge che

la Chiesa ritiene di dover ribadire come insegnamento definitivo che l’eutanasia è un crimine contro la vita umana perché, con tale atto, l’uomo sceglie di causare direttamente la morte di un altro essere umano innocente. 

Ciò comporta delle conseguenze molto gravi, che facilmente saranno tacciate di disumane dalle sirene dell’Eutanasia: il discernimento pastorale verso chi chiede eutanasia o suicidio assistito è difatti un corollario spinosissimo della materia.

[…] ci troviamo davanti ad una persona che, oltre le sue disposizioni soggettive, ha compiuto la scelta di un atto gravemente immorale e persevera in esso liberamente. Si tratta di una manifesta non-disposizione per la recezione dei sacramenti della Penitenza, con l’assoluzione, e dell’Unzione, così come del Viatico. Potrà ricevere tali sacramenti nel momento in cui la sua disposizione a compiere dei passi concreti permetta al ministro di concludere che il penitente ha modificato la sua decisione. Ciò comporta anche che una persona che si sia registrata in un’associazione per ricevere l’eutanasia o il suicidio assistito debba mostrare il proposito di annullare tale iscrizione, prima di ricevere i sacramenti. Si ricordi che la necessità di posporre l’assoluzione non implica un giudizio sull’imputabilità della colpa, in quanto la responsabilità personale potrebbe essere diminuita o perfino non sussistere. Nel caso in cui il paziente fosse ormai privo di coscienza, il sacerdote potrebbe amministrare i sacramenti sub condicione se si può presumere il pentimento a partire da qualche segno dato anteriormente dalla persona malata.

Non solo, ma in caso di perseveranza nella mentalità eutanasica fino al perseguimento dello scellerato scopo si fa espresso divieto al cappellano di presenziare all’atto:

[…] non è ammissibile da parte di coloro che assistono spiritualmente questi infermi alcun gesto esteriore che possa essere interpretato come un’approvazione dell’azione eutanasica, come ad esempio il rimanere presenti nell’istante della sua realizzazione. Tale presenza non può che interpretarsi come complicità. Questo principio riguarda in particolar modo, ma non solo, i cappellani delle strutture sanitarie ove può essere praticata l’eutanasia, che non devono dare scandalo mostrandosi in qualsiasi modo complici della soppressione della vita umana.

La limitazione a questi due soli passaggi, che è facile aspettarsi da parte dell’informazione mainstream, e anche da “quella cattolica”, pregiudicherà gravemente la corretta e completa comprensione della lettera, la quale è sì un testo esigente ma molto equilibrato e proporzionato all’intensità dell’attività eutanasica che formicola nelle legislazioni del mondo atlantico e occidentale.

 

 

A proposito di “cattolicità”, un altro paragrafo salutarmente duro è quello che ventila agli “ospedali cattolici” l’eventualità che venga loro ritirato (peraltro a norma del diritto già vigente) il permesso di fregiarsi di quell’aggettivo:

Le istituzioni sanitarie cattoliche sono chiamate ad essere fedeli testimoni dell’irrinunciabile attenzione etica per il rispetto dei valori umani fondamentali e di quelli cristiani costitutivi della loro identità, mediante l’astensione da comportamenti di evidente illiceità morale e la dichiarata e formale obbedienza agli insegnamenti del Magistero ecclesiale. Ogni altra azione, che non corrisponda alle finalità e ai valori ai quali le istituzioni sanitarie cattoliche si ispirano, non è eticamente accettabile e, pertanto, pregiudica l’attribuzione, alla istituzione sanitaria stessa, della qualifica di “cattolica”.

 

 

Fino a quando alimentare e idratare

Si ribadisce altresì che alimentazione e idratazione sono «una cura di base dovuta a ogni uomo», e ci si spinge a definire il criterio-guida per il discernimento del sopraggiunto accanimento terapeutico:

Quando il fornire sostanze nutrienti e liquidi fisiologici non risulta di alcun giovamento al paziente, perché il suo organismo non è più in grado di assorbirli o metabolizzarli, la loro somministrazione va sospesa. In questo modo non si anticipa illecitamente la morte per privazione dei supporti idratativi e nutrizionali essenziali alle funzioni vitali, ma si rispetta il decorso naturale della malattia critica o terminale. In caso contrario, la privazione di questi supporti diviene un’azione ingiusta e può essere fonte di grandi sofferenze per chi la patisce. Alimentazione e idratazione non costituiscono una terapia medica in senso proprio, in quanto non contrastano le cause di un processo patologico in atto nel corpo del paziente, ma rappresentano una cura dovuta alla persona del paziente, un’attenzione clinica e umana primaria e ineludibile.

 

 

No all’aborto e alla mentalità eugenetica che lo favorisce

Benché precipuamente dedicata al fine-vita, la Lettera della CDF non manca di ribadire la posizione della Chiesa anche in materia di aborto, e non perché – come alcuni malignamente intendono – ai cristiani interesserebbe delle persone per i nove mesi prima della nascita e per gli ultimi giorni prima della morte, bensì perché

fin dal concepimento, i bambini affetti da malformazioni o patologie di qualsiasi genere sono piccoli pazienti che la medicina oggi è in grado di assistere e accompagnare in maniera rispettosa della vita. La loro vita è sacra, unica, irripetibile ed inviolabile, esattamente come quella di ogni persona adulta. 

 

A minare e fiaccare nella coscienza delle persone questa evidenza di ragione – «est qui futurus», diceva già Tertulliano – sta il fatto che la mentalità abortista si trova la strada spianata da pratiche che in sé e per sé non sono abortiste, ma che per l’aborto vengono disposte e ad esso dispongono le persone:

[…] a livello sociale, l’uso a volte ossessivo della diagnosi prenatale e l’affermarsi di una cultura ostile alla disabilità inducono spesso alla scelta dell’aborto, giungendo a configurarlo come pratica di “prevenzione”. Esso consiste nell’uccisione deliberata di una vita umana innocente e come tale non è mai lecito. L’utilizzo delle diagnosi prenatali per finalità selettive, pertanto, è contrario alla dignità della persona e gravemente illecito perché espressione di una mentalità eugenetica. In altri casi, dopo la nascita, la medesima cultura porta alla sospensione o al non inizio delle cure al bambino appena nato, per la presenza o addirittura solo per la possibilità che sviluppi nel futuro una disabilità. Anche questo approccio, di matrice utilitarista, non può essere approvato. Una simile procedura, oltre che disumana, è gravemente illecita dal punto di vista morale.

 

 

Le “ragioni” della cultura dello scarto

Le società che si vantano del lignaggio ateniese (ah, la democrazia!) risultano a una seconda occhiata delle (cattive) imitatrici della costituzione spartana, laddove se non altro l’antica polis peloponnesiaca era spietata coi suoi cittadini perché nell’aggressività militare trovava la sola via di sussistenza: le nostre città (che più propriamente sembrano casermoni di individui sconnessi) alimentano invece la propria (sempre meno) lenta e (sempre più) inesorabile autodistruzione per sofismi e paralogismi che la Lettera firmata da Ladária così schematizza.

  • […] il primo è il riferimento a un uso equivoco del concetto di “morte degna” in rapporto con quello di “qualità della vita”. Emerge qui una prospettiva antropologica utilitaristica che viene «legata prevalentemente alle possibilità economiche, al “benessere”, alla bellezza e al godimento della vita fisica, dimenticando altre questioni più profonde – relazionali, spirituali e religiose – dell’esistenza». […]
  • Un secondo ostacolo […] è una erronea comprensione della “compassione”. […]
  • Il terzo fattore […] è un individualismo crescente, che induce a vedere gli altri come limite e minaccia alla propria libertà. […]

Questo modo di pensare le relazioni umane e il significato del bene non può non intaccare il senso stesso della vita, rendendola facilmente manipolabile, anche attraverso leggi che legalizzano pratiche eutanasiche, procurando la morte dei malati.

Insomma, si comincia con l’autodeterminazione e si finisce col determinare le vite degli altri (e dei più inermi e innocenti): l’allarme della Lettera non riguarda unicamente le fasi prenatali o perinatali, ma anche quelle prettamente infantili (si pensi ai tristemente noti casi di Charlie Gard, Alfie Evans e troppi altri).

Il concetto etico/giuridico del “miglior interesse del minore” – oggi utilizzato per effettuare la valutazione costi-benefici delle cure da effettuare – in nessun modo può costituire il fondamento per decidere di abbreviare la sua vita al fine di evitargli delle sofferenze, con azioni od omissioni che per loro natura o nell’intenzione si possono configurare come eutanasiche.

 

 

Le cure palliative (e lo "stare")

Sulle cure palliative si legge poi una delle pagine più intelligenti e acute del documento, laddove da una parte si cerca di disambiguare le aberrazioni truffaldine delle stesse:

In alcuni Paesi del mondo, le normative nazionali che disciplinano le cure palliative (Palliative Care Act) così come le leggi sul “fine vita” (End-of-Life Law), prevedono, accanto alle cure palliative, la cosiddetta Assistenza Medica alla Morte (MAiD), che può includere la possibilità di richiedere eutanasia e suicidio assistito. Tale previsione normativa costituisce un motivo di grave confusione culturale, poiché fa credere che delle cure palliative sia parte integrante l’assistenza medica alla morte volontaria e che pertanto sia moralmente lecito richiedere l’eutanasia o il suicidio assistito.

 

 

Invece già sul finire della II parte il documento aveva ricordato – quasi riecheggiando “Tenere il filo”, la bella cover che a fini divulgativi e di sensibilizzazione un hospice vandeano aveva prodotto poco più di un anno fa – come «anche quando sembra che non ci sia più nulla da fare c’è ancora molto da fare». Che cosa dunque? Stare.

Per quanto così importanti e cariche di valore, le cure palliative non bastano se non c’è nessuno che “sta” accanto al malato e gli testimonia il suo valore unico e irripetibile. Per il credente, guardare al Crocefisso significa confidare nella comprensione e nell’Amore di Dio: ed è importante, in un’epoca storica in cui si esalta l’autonomia e si celebrano i fasti dell’individuo, ricordare che se è vero che ognuno vive la propria sofferenza, il proprio dolore e la propria morte, questi vissuti sono sempre carichi dello sguardo e della presenza di altri. Attorno alla Croce ci sono anche i funzionari dello Stato romano, ci sono i curiosi, ci sono i distratti, ci sono gli indifferenti e i risentiti; sono sotto la Croce, ma non “stanno” con il Crocifisso.

E come si fa a “stare” con il morente?

[…] coloro che “stanno” attorno al malato non sono soltanto testimoni, ma sono segno vivente di quegli affetti, di quei legami, di quell’intima disponibilità all’amore, che permettono al sofferente di trovare su di sé uno sguardo umano capace di ridare senso al tempo della malattia. Perché, nell’esperienza del sentirsi amati, tutta la vita trova la sua giustificazione.

Appare significativo, in tal senso, che il Papa e Ladária abbiano optato per una firma di una simile lettera nella memoria di Camillo De Lellis, il santo di Bucchianico che di tanto in tanto i confratelli trovavano intento a chiedere perdono ai malati dei propri peccati. Da quanto, contemplandone il mistero, Camillo vi vedesse Cristo in persona (e nell’iconografia lo si rappresenta appunto mentre sorregge un infermo che ha le fattezze fisiche del Redentore).

 

 

Contemplazione e compassione: la sola ecologia veramente integrale

Si capisce forse meglio, a questo punto, che cosa il Papa intenda dire quando, in queste settimane di “tempo del creato”, ripetutamente insiste sulla “contemplazione” come chiave per superare bene la crisi ecologica. Anzi, nell’incontro del 12 settembre scorso con le comunità Laudato si’ Francesco ha composto un binomio saldando alla ricorrente “contemplazione” la meno frequentata “compassione”:

[…] La contemplazione è l’antidoto alle scelte frettolose, superficiali e inconcludenti. Chi contempla impara a sentire il terreno che lo sostiene, capisce di non essere al mondo solo e senza senso. Scopre la tenerezza dello sguardo di Dio e comprende di essere prezioso. Ognuno è importante agli occhi di Dio, ognuno può trasformare un po’ di mondo inquinato dalla voracità umana nella realtà buona voluta dal Creatore. Chi sa contemplare, infatti, non sta con le mani in mano, ma si dà da fare concretamente. La contemplazione ti porta all’azione, a fare.

Ecco dunque la seconda parola: compassione. È il frutto della contemplazione. Come si capisce che uno è contemplativo, che ha assimilato lo sguardo di Dio? Se ha compassione per gli altri – compassione non è dire: “questo mi fa pena…”, compassione è “patire con” –, se va oltre le scuse e le teorie, per vedere negli altri dei fratelli e delle sorelle da custodire. […]. […] chi ha compassione passa dal “di te non m’importa” al “tu sei importante per me”. O almeno “tu tocchi il mio cuore”. Però la compassione non è un bel sentimento, non è pietismo, è creare un legame nuovo con l’altro. È farsene carico, come il buon Samaritano che, mosso da compassione, si prende cura di quel malcapitato che neppure conosce (cfr Lc 10,33-34). Il mondo ha bisogno di questa carità creativa e fattiva, di gente che non sta davanti a uno schermo a commentare, ma di gente che si sporca le mani per rimuovere il degrado e restituire dignità. Avere compassione è una scelta: è scegliere di non avere alcun nemico per vedere in ciascuno il mio prossimo. E questa è una scelta.

«Come il buon Samaritano», disse Francesco dieci giorni fa, quando la Samaritanus Bonus era già stata scritta, approvata e firmata da quasi due mesi (anche se non lo si sapeva): «Si tratta, in tal senso – si legge già nella I parte della Lettera – di avere uno sguardo contemplativo, che sa cogliere nell’esistenza propria e altrui un prodigio unico ed irripetibile, ricevuto e accolto come un dono». Ecco la profonda unità che nella dottrina sociale della Chiesa riconosce l’emergenza climatica connessa (in senso sistemico, certo non causale) all’“abominevole delitto” dell’aborto, e l’eccidio degli anziani al dramma dello smaltimento dei rifiuti. Incredibilmente, sembra sia rimasta solo la Chiesa cattolica a denunciare che il mondo non può sperare di regolare il tasso di CO2 mentre costruisce e consolida una cultura dello scarto.


FONTE: Aleteia.org, 22/09/2020

 

 

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