Novecento anni di missione e comunione

Il vescovo Reali ha aperto il Giubileo indetto per l’unione di Porto e Santa Rufina

Sacerdoti o laici, adulti o ragazzi, tutti hanno accarezzato quella porta quasi in modo istintivo, come se sapessero di doverlo fare senza un particolare motivo. L’hanno attraversata con atteggiamenti differenti, rispetto, timore, commozione. Ogni persona ha risposto con la sua sensibilità e la sua storia a un evento straordinario: l’apertura del Giubileo per i Novecento anni dell’unione di Porto e di Santa Rufina. La cattedrale de La Storta nel primo giorno dell’Avvento ha fatto da cornice al ricordo di questa tappa fondamentale nel cammino della diocesi. Il coro della chiesa madre ha accolto il vescovo Reali, i sacerdoti e le loro comunità cantando «Cristo, luce della vita», sulle cui note il pastore ha acceso la Lampada del giubileo, un cero votivo con il logo dell’anno giubilare.

Al centro della candela c’è la stilizzazione della croce nastriforme del frammento di ciborio ritrovato durante gli scavi nella basilica di Sant’Ippolito a Fiumicino. A destra una mitra con un pastorale: le insegne episcopali richiamano Ippolito, primo vescovo e martire della Chiesa di Porto. A sinistra due palme incrociate, simboli del martirio, ricordano le giovani sorelle Rufina e Seconda, uccise a Selva Candida. I due elementi, rivolti verso la croce, contemplano il mistero di Gesù Cristo, accettato nelle loro esistenze con il sacrificio della vita. Nel mezzo la dicitura “Ex duabus una” su un fondo blu: è il colore del mare, confine aperto della diocesi e della Vergine.

L’espressione latina, che significa “da due una”, ha spiegato il presule nell’omelia, riprende quanto stabilito da papa Callisto II nel decreto di unificazione delle due antiche Chiese. Attraverso questo riferimento storico il presule ha indicato alla diocesi il tema del Giubileo: la comunione. “Ex duabus una”, ha spiegato il vescovo, «ci invita alla scuola dell’incontro e del dialogo per imparare a leggere nelle differenze i doni di ognuno da mettere assieme e condividere a sostegno di chi ne ha bisogno e del bene comune».

Per questo il pastore interpreta «questo anno straordinario» come occasione per «conoscere meglio il nostro territorio e riscoprirne le ricchezze spirituali per crescere tutti nel senso di appartenenza, nell’identità e nella fraternità». L’identità di una diocesi priva di confini naturali trova una strada sicura nella disponibilità verso l’altro, chiunque esso sia. Nel territorio esteso tra il litorale nord del Lazio e la Campagna romana, ha detto il vescovo, «la gente ha praticato da subito l’accoglienza, con la consapevolezza di essere una casa aperta. Probabilmente l’apostolo Pietro diretto a Roma percorse la nostra terra e diede vita alla prima comunità.

Attraversando questa porta, ancora oggi i pellegrini seguono le nostre strade per arrivare alla Sede di Pietro, per noi una vicinanza speciale di cui siamo onorati». E proprio come in pellegrinaggio, quasi a ribadire l’unione tra comunione e missione, su cui l’assemblea di settembre ha ragionato, il presule ha affidato a ogni parrocchia la lampada del Giubileo, consegnata simbolicamente ai vicari foranei: «La fiamma di questo cero, sia segno di unità ed espressione della volontà di tutti a lasciarsi illuminare da Cristo “luce del mondo”, per divenire testimonianza viva del suo amore».

Simone Ciampanella

(foto Lentini)

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