A morte. Senza pietà.

Dopo i purtroppo celebri casi di Charlie Gard e Alfie Evans, torna a tenere banco l’ormai altrettanto celebre e drammatico caso del piccolo Archie Battersbee, bambino britannico di appena 12 anni, in coma dal 7 aprile scorso dopo che la madre lo ha scoperto con una corda al collo, probabilmente utilizzata per partecipare a una sfida telematica tra coetanei.


I danni cerebrali del bimbo sarebbero così gravi e irreparabili che, secondo i medici che lo hanno in cura, sarebbe opportuno sospendere «quei trattamenti di sostegno vitale che, come la ventilazione artificiale, consentono al ragazzo di restare in vita».

I genitori sono convinti dell’opposto. Affermano infatti che Archie «reagisce, stringe le loro mani e perfino piange», mostrando così di non poter essere definito, come si usa dire – con pessima espressione – un “vegetale”.

In altri in casi simili – come accennavamo prima Charlie Gard (2017), Alfie Evans (2018), Isaiah Haastrup (2018), Tafida Raqeed (2019) – si era registrata una biforcazione analoga tra volontà dei genitori e assurde pretese di morte dei medici. Da un lato, appunto, il personale sanitario, che crede di essere l’unico soggetto preposto a decidere cosa sia meglio per il paziente (in questo e altri casi la morte); dall’altro le famiglie che stringendo i denti lottano per la vita e il miracolo della guarigione.

Guarigione che forse non verrà mai, sia ben chiaro, ma la certezza che la guarigione non verrà non può giustificare – neppure se uno potesse prevedere il futuro – una «soppressione anticipata». La cosa drammatica è che il 15 luglio scorso l’Alta Corte della giustizia inglese, attraverso il parere del giudice Antony Hayden, ha legittimato la morte prematura (e indotta) del piccolo Archie, autorizzando l’ospedale ad omettere l’uso di tutto ciò che gli ha permesso finora di restare in vita.

E questo giudizio è avvenuto, ancora una volta, con l’ipocrisia del cosiddetto “best interest” del fanciullo. Che sarebbe quello di morire. Nella motivazione è scritto nero su bianco che: «Se ci fosse anche solo la possibilità che si possano registrare dei miglioramenti delle condizioni di Archie» sarebbe ammissibile l’uso del ventilatore e della nutrizione artificiale.

In questo caso specifico, secondo il giudice Hayden, «il trattamento è futile, compromette la dignità di Archie, lo priva della sua autonomia e diventa del tutto contrario al suo benessere. Serve solo a prolungare la sua morte, pur non potendo prolungare la sua vita».

La morte è un istante, caro dottor Hayden, e non può essere prolungata. La vita invece viene spesso “prolungata” da supporti medici, psicologici e scientifici e lo si fa proprio perché è sempre degna di essere vissuta.

Secondo la madre del piccolo, Hollie Dance, «non è nel migliore interesse di Archie morire», con una sorte, di “morte pianificata”. Per la signora, «la sospensione del respiratore è la cosa peggiore che possa capitare e non capisco – ha dichiarato - come si possa definire una morte dignitosa».
 
L’assurdità della decisione si evince dall’ambiguità del concetto di “dignità” che può significare cose opposte. E in ogni caso dire che è più degno morire, piuttosto che vivere (pur in condizioni estremamente difficili) è quanto meno discutibile.

Se poi dei medici e dei giudici, uomini di cura e uomini di giustizia, si arrogano il diritto di dire dove sia il “best interest” di un minorenne, anche contro il parere dei genitori, allora lo Stato di diritto è minato nelle sue fondamenta. E l’uguaglianza dei cittadini (sani e malati) diventa un mero ricordo.

La speranza è che la Corte d’appello ribalti la sentenza della Corte di Giustizia, salvi Archie, conforti i genitori e dia manforte a tutti quelli che non accettano l’idea che possa esistere una “vita senza dignità”.
 
FONTE: https://www.provitaefamiglia.it/blog/il-caso-del-piccolo-archie-quando-leutanasia-viene-imposta