Una cultura samaritana

«Come pastori siate non predicatori di complesse dottrine, ma annunciatori di Cristo, morto e risorto per noi». L’indicazione data da papa Francesco nel 2015 a Firenze, durante il Convegno ecclesiale italiano, ha fatto da tema all’incontro del clero di Porto-Santa Rufina e di Civitavecchia-Tarquinia che si è tenuto giovedì scorso nella parrocchia della Santissima Trinità a Cerveteri. Il percorso parallelo delle due Chiese immaginato dal vescovo Ruzza ha trovato espressione in una serie di appuntamenti formativi alternati a ritiri spirituali che durante l’anno accompagneranno i sacerdoti a ripensare l’avvertimento dell’apostolo Paolo «Guai a me se non annunciassi», tema di fondo della proposta.

Ragione per cui la prima tappa di questo cammino ha riguardato “la proposta essenziale e l’urgenza del kerygma nell’attuale contesto culturale”. «Un tema molto rilevante per noi che si andrà a inserire con il percorso di preparazione del Sinodo» ha detto il pastore ringraziando della disponibilità il relatore, don Armando Matteo, sottosegretario della congregazione per la dottrina della fede. «Che cosa dà gioia alle donne e agli uomini di oggi? Che cosa dice la gioia che nasce dall’incontro di Gesù?» ha chiesto il sacerdote ponendo la questione del “come” far incontrare l’anelito di gioia presente nell’umanità e la risposta della gioia cristiana a questa istanza.

La comprensione della portata di quanto chiede il Papa risiede nella consapevolezza che la cultura di oggi è essenzialmente differente da quella a cui si è rivolta per quasi seicento anni la pastorale conosciuta fino ad oggi. Dal dopoguerra ad oggi abbiamo assistito a un importante salto qualitativo culturale, segnato «dall’emancipazione dell’uomo comune – dell’adulto in particolare – dalla situazione di bisogno e di frustrazione del passato». Nuove idee, abbattimento di tanti tabù, invenzioni tecnologiche, sviluppo della medicina e della farmaceutica, rivoluzione economica, rivoluzione digitale hanno reso «l’uomo più autonomo, meno povero, più libero». Nella nuova configurazione del rapporto con il mondo la parola “gioia” evoca potenza, godimento, giovinezza.

Proprio il “giovanilismo” denota l’aspirazione principale dell’umanità che vuole eludere la vecchiaia e rimuovere così il confronto con la morte. «Si tratta di prendere atto della mutazione profonda della generazione nata tra il 1946 e il 1964 (e successiva 1964-1980)» ha puntualizzato il relatore osservando che gli «adulti “diversamente adulti”» non onorano la vocazione della loro fase di vita: «smettere di pensare a sé stessi per cooperare alla felicità altrui, per “collaborare alla gioia altrui”».

In un mondo, dunque, «intransitivo» si sviluppa «l’economia dello scarto e dell’indifferenza» rileva il sottosegretario affermando che «il sistema economicofinanziario e di intrattenimento odierno sfrutta tutto questo cambiamento degli adulti per fare tanti soldi». L’individualismo che ne consegue e la distanza dalla preghiera originano il problema «della paralisi dell’educazione e della trasmissione della fede». Allora cosa fare? «Possiamo davvero contribuire alla “salvezza” del nostro oggi, nella misura in cui riusciremo a far evolvere una reale cultura samaritana» in cui gli adulti possono «riscoprire e mettere in atto il loro carattere generativo e transitivo».

Cambiamento possibile solo «grazie all’incontro con Cristo, morto e risorto: incontro che apre a quella gioia della vita e a quella vita di gioia che rompe l’incanto/incubo del giovanilismo attuale». L’azione pastorale che sostiene questo movimento va pensata come un unico movimento che può maturare da alcune riflessioni: cosa nelle attività ecclesiali rinvia a Gesù e all’incontro con il Vangelo? Cosa c’è di “troppo” nelle nostre attività? Chi vive un impegno in parrocchia ha un’idea gioiosa della fede?. «In verità - ha concluso il relatore non è oggi infruttuoso solo il predicare senza predicare la gioia del Vangelo, ma lo è pure il predicare senza gioia la gioia del Vangelo».

Simone Ciampanela