Padre Maccalli: «La fede nel silenzio di Dio».

Padre Pierluigi Maccalli a Selva Candida. Non è questa la notizia, seppur tale appare. La “buona notizia” è l’omelia tenuta dal missionario liberato in Mali a ottobre dopo due anni di prigionia. Nel 2018 pochi giorni prima del suo rapimento in Niger lo aveva incontrato don Federico Tartaglia, il parroco della Natività di Maria Santissima, in viaggio nel Paese africano. Qualche settimana don Federico lo ha invitato in parrocchia per celebrare l’Eucarestia domenica scorsa e lui ha semplicemente detto di sì.

Il Vangelo è quello della dieci vergini: cinque aspettano… le altre attendono... sono all’incontro. La parabola usa l’immagine simbolica dell’olio: cinque avevano l’olio, cinque invece non avevano pensato di portare l’olio». Cosa è questo olio che alimenta la lampada? «Indica la fede. Ciò che ha sorretto la mia fede in questi due anni di prigionia è stata la preghiera, l’olio della preghiera». Portato via in pigiama e ciabatte, non aveva nulla con sé, né bibbia, né Breviario, non poteva celebrare Messa: «Mi sono fatto un rosario, pregavo qualche Salmo che ricordavo. La mia messa era semplicemente dire: “Signore questo è il mio corpo offerto, non ho altro da darti”.

Preghiera, lacrime e tanti perché, nel «grande silenzio del Sahara. Il silenzio di Dio. Ma caparbiamente stavo fedele alla preghiera, perché so che lui c’è, che ha ascoltato il grido di tanti che sono passati per la notte oscura e di Gesù stesso in croce: “Padre perché mi hai abbandonato?”». Rimane solo davanti a Dio pensando all’angoscia della sua famiglia, alle comunità di missione che per due anni non avevano avuto più la presenza di un sacerdote. E la preghiera per l’Africa e per la pace: «Mi sono abbandonato a Dio “Che sia fatta la Tua volontà. Mi abbandono a te!”»

Nel tempo del deserto, padre Luigi ha fatto esperienza dell’essenziale che «nella nostra vita è lo Shalom, quest’armonia tra Cielo e terra e tra tutti gli uomini. Essenziale è la fraternità: siamo tutti figli dello stesso Padre. Essenziale è il perdono. È il “dono super” che possiamo scambiarci gli uni e gli altri; non ho rancore verso chi mi ha sorvegliato: erano ragazzi, giovani… con il kalasnikov, ma dicevo: “non sanno quello che fanno, non lo sanno”. E forse anche chi ha pianificato questo…». Nel giorno della liberazione dice a un carceriere «che Dio ci faccia capire un giorno che siamo tutti fratelli”. Lui ha detto: “No no, fratello per me è chi è musulmano”. Io ho lanciato i semi. Dio voglia che crescano nel cuore dell’Africa e di tante persone».

Tutto grazie alla preghiera sua e a quella «incessante» del suo paese, della sua diocesi, dei monasteri, degli amici in Italia e da altre parti «che hanno implorato, pregato e credo che abbiano smosso il cuore di Dio e la mia lettura di questa vicenda è che la preghiera ha aperto le porte della libertà ». L’ultimo pensiero del sacerdote è stato per quanti sono ancora prigionieri: «Grazie ancora e che il Signore continui ad accompagnarci e vi chiedo ancora di pregare, perché sono rimasti ancora altri ostaggi. C’è una suora colombiana, Gloria Cecilia, che pensavamo fosse con noi all’appuntamento, ma non era dentro al pacchetto di liberazione e altri ostaggi di cui uno da più di cinque anni e mezzo. Io ho fatto due anni, ma quando ho saputo che molta gente è lì da molto di più mi sono detto: “è stata lunga, ma… non so se ce l’avrei fatta…”. Sono qui con voi a chiedere al Signore di ascoltare ancora questa nostra preghiera corale, incessante, per chi è ancora ostaggio e spera e attende questa liberazione ». L’omelia è disponibile sulla pagina Facebook della parrocchia, un estratto è pubblicato sul canale Youtube della diocesi.

S.Cia

(16/11/2020)