Dare voce agli assenti è la suprema forma d'amore

Li scansano come appestati, li trattano come monatti. Ma le persone che ieri [Roma, sabato 19 maggio] hanno sfilato nella marcia per la vita pensano quel che pensava l’umanità e la civiltà cristiana in particolare, da sempre. Pensano che la nascita sia un bene e l’aborto un male, che la vita sia da difendere e la morte procurata sia da scoraggiare, che la natura vada rispettata e la volontà del singolo non possa avere valore assoluto. È così criminale questo modo di vedere, è così eversivo? Si può anche non condividerlo, o semplicemente non sentirsi dall’una o dall’altra parte, ma non c’è nulla di torvo, di maligno, di liberticida in questo.

La marcia della vita trae spunto dall’anniversario dalla legge sull’aborto, graziosamente ribattezzato interruzione di gravidanza, come se si trattasse di uno spot. Qualcuno dirà che l’aborto esisteva anche prima ma era clandestino; diciamo allora che con la legge lo Stato e la Società si sono messi dalla parte dell’aborto, considerato come una scelta lecita, anzi di più, umana, anzi di più, libera e pro-femminile.

 

Ogni tentativo non di cancellare la legge 194 ma semplicemente di incoraggiare le donne a scommettere sulla vita del loro figlio nascituro, è stata considerato un atto di sabotaggio, di terrorismo. Per una vita gli abortisti hanno detto che l’aborto è un doloroso diritto, beato chi può farne a meno. Allora perché non aiutare le indecise a scegliere per la vita? Non è in gioco il libero arbitrio della donna, la legge o il referendum: si tratta di dare un’altra possibilità, allargare lo sguardo; poi ciascuno sarà libero di accogliere o no. Perché difendere il diritto alla vita di una creatura sarebbe una barbarie?

 

Come in Orwell le parole si usano a rovescio, diventa barbaro voler salvare una vita e minaccioso il solo pensarlo. Sbaglia chi pensa che il conflitto tra abortisti e anti sia il conflitto tra antichi e moderni. Nelle società arcaiche l’aborto impressionava meno di quelle moderne; c’era più famigliarità con la mortalità infantile, c’era più dimestichezza con la natalità e con la morte, che spaventava meno di oggi. Anni di battaglie sui diritti umani, difesa dei più deboli, i diritti dell’infanzia e dei disabili, ci hanno reso ipersensibili. Perciò oggi più di ieri fa più impressione sopprimere una vita. E fa più impressione in America che in Pakistan.

 

Dicono che gli aborti sarebbero in calo. Che ipocrisia. Se calano le gravidanze, se calano le nascite, è comprensibile che calino pure gli aborti. Piuttosto sono ancora in aumento gli aborti tra le minorenni? Sono finiti o continuano quelli clandestini?

 

C’è terrorismo intorno all’aborto. C’è automatismo; l’aborto come una specie di necessità naturale e civile, una pratica acquisita e irreversibile, un tributo inevitabile al progresso, all’emancipazione della donna e alla liberazione. Che non si può rimettere in discussione o almeno tentare di bilanciare. Spaventa l’allineamento meccanico. La questione è rimossa, chi pubblica le foto di minuscoli corpi straziati da un raschiamento e gettati in un cestino viene accusato di barbarie: non chi lo pratica ma chi lo denuncia, sarebbe un barbaro.

 

Perché sarebbe civile mostrare un’esecuzione capitale e non un aborto? L’attenzione si concentra solo sui problemi della donna, dimenticando lui, il diretto interessato, il nascituro che non nascerà. So bene l’obiezione: c’è già stato un voto di maggioranza degli italiani tanti anni fa. Per carità, rispettiamolo, anche se il tempo cambia molte cose; negli Usa la maggioranza è ora antiabortista. Ma se avessimo fatto un referendum popolare sulla pena capitale, sugli immigrati clandestini, sul linciaggio in piazza dei pedofili, sullo scioglimento dei partiti, cosa sarebbe venuto fuori? La democrazia referendaria non può essere usata e assolutizzata a intermittenza, quando fa comodo. Non è più tempo però di vecchi slogan femministi del tipo “l’utero è mio e lo gestisco io”, come un negozio che apre e chiude quando lo dice la titolare, caschi il mondo, il padre e la vita altrui.

 

[Per il paragrafo che segue dobbiamo prendere le distanze dal pensiero dell'Autore - n.d.c.] Capisco l’aborto terapeutico quando è in pericolo la vita della madre. Capisco, con più fatica ma capisco, l’aborto per chi è stata violentata. Ho gravi dubbi sull’aborto eugenetico quando il bambino si annuncia malformato: è terribile il dramma dei genitori e la preoccupazione per un figlio non autosufficiente, ma spaventa questa selezione darwiniana che decide la vita di un’altra persona. Pur di evitare l’aborto arrivo a capire la pillola del giorno dopo.
 
 
Ma non capisco l’aborto compiuto per ragioni psicologiche e sentimentali, famigliari e socio-economiche. Che è poi l’aborto più praticato e spesso recidivo. Ci sono problemi che possano giustificare la soppressione di una vita? È un diritto elementare che precede tutti gli altri. Vorrei che fosse almeno consentito di tifare per la vita, senza considerare mostro chi abortisce. Continuo a non capireperché il diritto alla vita debba essere rivendicato per i condannati a morte che hanno ucciso altri uomini innocenti e non debba invece valere per una creatura inerme e incolpevole. Obiezione elementare, anzi meglio: infantile.

 

Davvero pensate ancora che la vita prenatale non si possa considerare vita? Trovo ipocrita chi dice di farlo per il bene della vittima, per risparmiarle una vita infelice: lasciate che sia lui a decidere da grande, non avete diritto di vita o di morte su di lui nel nome della sua felicità. Ma lasciate stare le giustificazioni umanitarie: l’aborto non è un atto umanitario. Giustificatelo brutalmente con il fatto che non si può estirpare questa piaga, che non si può sradicare l’egoismo, che siamo fragili e incapaci di sopportare il peso di una vita sgradita. Ma evitate di fingere superiorità etica e accampare ragioni di filantropia.

 

Distinguiamo tra l’errore e gli erranti, come diceva Papa Giovanni, ossia comprendiamo il travaglio di chi abortisce, non conosciamo gli inferni altrui e soprattutto non abbiamo alcun titolo per mandarli all’inferno. Ma siamo uomini e dobbiamo assumerci la quota di corresponsabilità che ci spetta, non possiamo restare neutrali e indifferenti davanti ad una vita che viene spenta nell’indaffarata indifferenza del prossimo. Non è giusto prendersi cura del mondo (I care) e poi fregarsene del nascituro della casa accanto. Preferirei perfino l’obbrobrio della ruota degli esposti e dei trovatelli al decreto di morte per una vita sconveniente.

 

Mi spaventa questa macabra prevalenza dei morti sui vivi che statisticamente segna l’Italia, questo paese allegramente funesto. Se essere un paese civile vuol dire che le bare battono le culle, preferisco vivere in un paese incivile. Dar voce agli assenti è la suprema forma d’amore.


Marcello Veneziani, Il Tempo 20 maggio 2018