Card. Ranjith: Teologia dell'adorazione eucaristica. Risposta alle obiezioni

 

 

 

 

 

“Quando siamo davanti al SS. mo Sacramento, invece di guardarci attorno, chiudiamo gli occhi e la bocca;  apriamo il cuore; il nostro buon Dio aprirà il suo; noi andremo a Lui. Egli verrà a noi, l’uno chiede, l’altro riceve; sarà come un respiro che passa dall’uno all’altro”, queste erano le parole con le quali il curato d’Ars, San Giovanni Maria Vianney, cercava di spiegare l’adorazione (Il piccolo Catechismo del Curato d’Ars, Tan Books & Publishers, Inc. Rockford, Illinois, 1951, p.42).

1. Adorazione è stare dinanzi a Dio onnipotente in un atteggiamento di silenzio, potente espressione di fede: “Parla, Signore, perché il tuo servo ti ascolta” (1 Sam.3,10). E’ davvero inspiegabile in termini umani. Papa Benedetto XVI ha spiegato il significato di adorazione come una proskynesis, “il gesto della sottomissione, il riconoscimento di Dio come nostra vera misura, la cui norma accettiamo di seguire”, e come ad – oratio “contatto bocca a bocca, bacio, abbraccio e quindi in fondo amore” (Omelia del 21 agosto 2005 a Marienfeld, Colonia). E’ tale processo di presenza davanti a Dio che ci trasforma. San Paolo, parlando di coloro che si volgono verso il Signore come fece Mosè, dichiara: “quando ci volgeremo verso il Signore, il velo sarà tolto…e noi tutti, a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati (meta morfoumetha) in quella medesima immagine, di gloria in gloria” (2 Cor. 3,16.18). E’ interessante notare che il verbo usato qui è lo stesso usato per spiegare la trasfigurazione di Cristo sul monte Tabor (metemorfothè).

La presenza dell’adorante dinanzi a Dio lo trasforma. Ciò è mirabilmente espresso in quelle parole del libro dell’Esodo: “quando Mosè scese dal monte Sinai con le due tavole della Testimonianza nelle mani, non sapeva che la pelle del suo viso era diventata raggiante, poiché aveva conversato con Yahweh. Ma Aronne e tutti gli israeliti, vedendo che la pelle del suo viso era raggiante, ebbero timore di avvicinarsi a lui” (Es. 34, 29-30). E’ come quando qualcuno si mette a fissare intensamente un tramonto; dopo un po’ di tempo, anche il suo volto assume un colorito dorato.

Il vescovo Fulton J. Sheen nota, nello spiegare tale esperienza, che quando guardiamo all’Eucaristia in un atteggiamento di adorazione, di profonda riverenza e amore “accade qualcosa in noi di molto simile a quanto accadde ai discepoli di Emmaus. Il pomeriggio della domenica di Pasqua, quando il Signore si fece loro incontro, domandò perché fossero così tristi. Trascorse alcune ore alla Sua presenza e ascoltando di nuovo il segreto della spiritualità – “il Figlio dell’Uomo deve soffrire per entrare nella Sua gloria” – finito il tempo di stare con Lui, i loro “cuori ardevano” (Un tesoro nell’argilla, Autobiografia). L’adorazione eucaristica è quindi un incontro profondamente personale e, in qualche misura, comunitario con il Signore. L’atteggiamento innato di riverenza non è dato da alcun senso di remissività, ma da un atteggiamento di fede profonda e dal grande desiderio di dialogo, o meglio, un atteggiamento di presenza e ascolto tra l’”Io” e il grande “Tu” – la ricerca della comunione.

E’ come quando Mosè guardava il roveto ardente. Il roveto continuava a bruciare, ma non si distruggeva. La nostra presenza davanti al Signore eucaristico non diminuisce la Sua gloria, ma parla a noi e noi dialoghiamo con Lui. E in tutto questo, veniamo trasformati. Non è Lui che cambia, ma noi. Eppure, lungo la storia della Chiesa, questa grande fede nella Presenza di Gesù in persona nella Santissima Eucaristia, ha avuto anche dei detrattori, soprattutto quelli che criticavano la pratica ecclesiale dell’adorazione eucaristica.

 


OBIEZIONI ALL’ADORAZIONE

Le forme più antiche di obiezione all’adorazione eucaristica, sorsero nel contesto di una constatazione della non presenza fisica e reale del Cristo nelle specie consacrate del pane e del vino. Fu Berengario (999 – 1088), l’arcidiacono di Angers in Francia, che sorprendentemente sosteneva questa posizione all’inizio del Medio Evo che, ipso facto, avrebbe reso superflua l’adorazione eucaristica. Ma fu papa Gregorio VII, il capo della Chiesa allora regnante, che ordinò a Berengario di firmare una ritrattazione a motivo della fede costante della Chiesa, un documento che divenne il primo pronunciamento definitivo sulla fede eucaristica della Chiesa. Dichiarava: “Credo con il cuore e professo apertamente che il pane e il vino offerti sull’altare, mediante la preghiera e le parole del Redentore, sono cambiati sostanzialmente nella vera e propria vivificante carne e sangue di Gesù Cristo, nostro Signore, e che dopo la consacrazione, sono il vero corpo di Cristo nato dalla Vergine e appeso alla croce in immolazione per la salvezza del mondo, così come il sangue di Cristo uscito dal Suo fianco, non solo come segno e in ragione della potenza del sacramento, ma nella verità e realtà della loro sostanza e in ciò che è proprio alla loro natura” (Mansi, Collectio amplissima Conciliorum, XX 524D).

Oltre a tale convinzione di fede, la Chiesa diede impulso a una intensificazione del culto eucaristico sotto forma di processioni eucaristiche, atti di adorazione, visite a Cristo nella pisside, ecc. Queste tradizioni iniziate allora sono diventate espressioni di fede eucaristica. In seguito, presero corpo altre iniziative, quale l’istituzione della solennità del Corpus Domini da parte di papa Urbano IV. I miracoli eucaristici contribuirono alla crescita di tale fervore e rafforzò la fede della Chiesa sulle specie consacrate del pane e del vino, che sono realmente e integralmente il corpo e il sangue di Cristo, fede creduta fermamente dagli apostoli e sempre professata come dottrina fondamentale della Chiesa. In effetti, è quanto il Signore stesso aveva affermato e voluto per la Sua Chiesa. “Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue” (cfr. Lc, 22,19-20) e “fate questo in memoria di me” (Lc. 22,19), furono le parole determinanti del Signore che anche san Paolo riprende quando presenta l’Eucaristia (1 Cor. 4, 23-27).

La fede eucaristica della Chiesa fu definitivamente definita e affermata dal Concilio di Trento, sullo sfondo della rivoluzione luterana. Esso affermava che “nel divino sacramento della santa Eucaristia, dopo la consacrazione del pane e del vino, il nostro Signore Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo, è contenuto veramente, realmente e sostanzialmente sotto l’apparenza di quelle cose sensibili” (c. 719) e ancora “poiché il Cristo, nostro Redentore, ha detto che ciò che offriva sotto la specie del pane (Mt. 26,26ss.; Mc. 14,22ss; Lc. 29,19ss e 1 Cor. 11, 24ss) era veramente il suo corpo, nella Chiesa di Dio vi fu sempre la convinzione, e questo santo Concilio lo dichiara ora di nuovo, che con la consacrazione del pane e del vino si opera la conversione di tutta la sostanza del pane nella sostanza del corpo del Cristo, nostro Signore, e di tutta la sostanza del vino nella sostanza del Suo sangue. Questa conversione quindi, in modo conveniente e appropriato è chiamata dalla santa Chiesa cattolica transustanziazione” (c. 722). Inoltre, confutò l’errore propagato soprattutto dalla riforma protestante, secondo cui la transustanziazione fosse impossibile. Zwingli preferì interpretare la consacrazione nel senso di transignificazione: non “questo è il mio corpo”, ma “questo è come il mio corpo”. Egli contesta che non può essere “è”, poiché se così fosse, noi mangeremmo letteralmente la carne e il Signore sarebbe lacerato dai nostri denti. E dato che ciò non avviene, la transustanziazione non può essere vera” (cfr. Sulla cena del Signore ‘1526’ in Corpus Reformatorum: Huldreich Zwingli Saemtliche Werke, vol 91 ‘Lipsia, Hensius 1927’, 796.2 – 800.5). Per questo il Concilio di Trento decretò che “se qualcuno negherà che nel santissimo sacramento dell’Eucaristia è contenuto veramente, realmente, sostanzialmente il corpo e il sangue di nostro Signore Gesù Cristo, con l’anima e la divinità, e quindi il Cristo tutto intero, ma dirà che esso vi è solo come in un simbolo o una figura, o solo con la sua potenza: sia anatema” (canone 728).

La Chiesa pertanto ha fermamente conservato la verità che il pane e il vino consacrati, sono nella loro sostanza, veramente e integralmente il corpo e il sangue di Cristo. Un dogma che è stato continuamente riaffermato dai Concili che seguirono e dai supremi Pontefici. Come papa Pio XII, il quale dichiarò che “per mezzo della transustanziazione del pane in corpo e del vino in sangue di Cristo, come si ha realmente presente il Suo corpo, così si ha il Suo sangue” (Mediator Dei, 70).  Lo stesso è stato ribadito da papa Paolo VI (Mysterium Fidei, 46), da papa Giovanni Paolo II (Ecclesia de Eucharistia, 15, e da papa Benedetto XVI (Sacramentum Caritatis 10, 11 e 66).

Papa Paolo VI, da parte sua, era seriamente preoccupato riguardo a una certa tendenza nella Chiesa, successiva al Concilio Vaticano II, di attenuazione di fede sulla sostanza dell’Eucaristia, in particolare sulla transustanziazione e sulla presenza permanente. Egli dichiarò: “ben sappiamo che… ci sono alcuni che circa le Messe private, il dogma della transustanziazione e il culto eucaristico, divulgano certe opinioni che turbano l’animo dei fedeli ingerendovi non poca confusione..” (Mysterium Fidei 10). E continua il papa: “non possiamo approvare le opinioni che essi esprimono e sentiamo il dovere di avvisarvi del grave pericolo di quelle opinioni per la retta fede” (ibid 14). Il papa, durante la cui vita si svolse la maggior parte del Concilio Vaticano II, affermava: “la costante istruzione impartita dalla Chiesa ai catecumeni, il senso del popolo cristiano, la dottrina definita dal Concilio di Trento e le stesse parole con cui Cristo istituì la SS.ma Eucaristia ci obbligano a professare che ‘l’Eucaristia è la carne del nostro Salvatore Gesù Cristo, che ha patito per i nostri peccati e che il Padre per sua benignità ha risuscitato’ (S. Ignazio di Antiochia, Epistola ai smirnesi 7,1; PG 5,714). Alle parole del martire sant’Ignazio, Ci piace aggiungere le parole di Teodoro di Mopsuestia, in questa materia testimone attendibile della fede della Chiesa: ‘Il Signore, egli scrive, non disse: questo è il simbolo del mio corpo e questo è il simbolo del mio sangue, ma: questo è il mio corpo e il mio sangue, insegnandoci a non considerare la natura della cosa presentata, ma a credere che essa con l’azione di grazia si è tramutata in carne e sangue’” (Mysterium fidei 44). In effetti, l’intera enciclica di Paolo VI è una solida difesa della retta fede della Chiesa sulla SS.ma Eucaristia. Inoltre, nella solenne professione di fede del 30 giugno 1968, egli affermò che “ogni spiegazione teologica che tenti di penetrare in qualche modo questo mistero, per essere in accordo con la fede cattolica, deve mantenere fermo che nella realtà obiettiva, indipendentemente dal nostro spirito, il pane e il vino han cessato di esistere dopo la consacrazione, sicché da quel momento sono il Corpo e il Sangue adorabili  del Signore Gesù ad essere realmente dinanzi a noi sotto le specie sacramentali del pane e del vino” (25, AAS60 (1968) 442-443).  Di conseguenza, il Papa sollecita i vescovi “affinché questa fede… rigettando nettamente ogni opinione erronea e perniciosa, voi custodiate pura e integra nel popolo” e “promoviate il culto eucaristico, a cui devono convergere finalmente tutte le altre forme di pietà” (Mysterium fidei 65).

Risulta chiaro dunque che le obiezioni all’adorazione eucaristica basate su una contestazione o una falsa interpretazione della fede e dottrina ecclesiali, sono disapprovate e fermamente respinte.

 


2. Il Santo Padre, papa Benedetto XVI, nella Esortazione apostolica post-sinodale “Sacramentum Caritatis”, parla di un’opinione che si era diffusa “mentre la riforma liturgica conciliare muoveva i primi passi”, secondo cui “l’intrinseco rapporto tra la santa Messa e l’adorazione del SS.mo Sacramento non fu abbastanza chiaramente percepito”. Dichiara il papa, “un’obiezione allora diffusa prendeva spunto, ad esempio, dal rilievo secondo cui il Pane eucaristico non ci sarebbe stato dato per essere contemplato, ma per essere mangiato” (Sacr. Car. 66). Una situazione scaturita probabilmente da qualche influsso della teologia protestante, dal momento che tracce di tale errore riflettono quanto avvenuto durante la riforma protestante. Quasi tutti i riformatori contraddicevano la dottrina tridentina sulla presenza permanente e transustanziata di Cristo nel pane e vino consacrati, riducendolo a un mero fatto simbolico, affermando peraltro che l’Eucaristia era solo una cena conviviale, ma non un sacrificio riattualizzato, per cui veniva meno l’adorazione. Benché Lutero, Zwingli, Melantone e Giovanni Calvino avessero prospettive particolari tra loro a volte contraddittorie, in genere la loro interpretazione dell’Eucaristia era in contrasto con la teologia cattolica del tempo. Lutero sosteneva che la presenza reale si limitava alla ricezione della Santa Comunione (in usu, non extra). Infatti i luterani credono nella presenza reale solo tra la consacrazione e la Santa Comunione. Posizione che fu fermamente condannata dal Concilio di Trento, che decretò che “se qualcuno dirà che, una volta terminata la consacrazione, nel mirabile sacramento dell’Eucaristia non vi sono il corpo e il sangue del Signore nostro Gesù Cristo, ma che vi sono solo durante l’uso, mentre lo si riceve, ma né prima né dopo; e che nelle ostie o particole consacrate, che si conservano o avanzano dopo la comunione, non rimane il vero corpo del Signore: sia anatema” (canone 731). Per la Chiesa cattolica dunque la presenza di Cristo nelle specie consacrate dell’Eucaristia, non è limitata solo al momento della Comunione, ma permane. In altre parole, non è fatta solo per essere “mangiata”, ma anche per essere adorata.

Papa Benedetto XVI sottolinea proprio questo aspetto quando dichiara che “ricevere l’Eucaristia significa porsi in atteggiamento di adorazione verso colui che riceviamo” (Sacramentum Caritatis, 66). Effettivamente, l’Eucaristia non è semplicemente l’anticipazione gioiosa del banchetto celeste che avverrà alla parusia, ma è pure il Sacrificio del Calvario e suo memoriale. Non è solo una festa per la nostra fame ma anche per i nostri occhi, poiché fissiamo stupiti l’autodonazione di amore per la nostra salvezza. Ma Lutero non la vede così.

Per lui, non esiste alcun legame ontologico tra quanto avvenne sul Calvario e quanto avviene sull’altare, per questo la teologia luterana non dà adeguato valore all’aspetto sacrificale della Santa Messa. Pone soprattutto l’accento sull’aspetto conviviale della Cena. E’ forse questa la ragione per cui Lutero non diede molta importanza alla teologia del sacerdozio, specialmente nella sua dimensione sacrificale, come è esposto nella lettera agli Ebrei. Al contrario, per la teologia cattolica, ogni volta che si celebra l’Eucaristia, si rinnova il sacrificio di Cristo sul Calvario, così come ha dichiarato papa Pio XII: “L’augusto sacrificio dell’altare non è una pura e semplice commemorazione della passione e morte di Gesù Cristo, ma è un vero e proprio sacrificio, nel quale, immolandosi incruentamente, il Sommo Sacerdote fa ciò che fece una volta sulla croce offrendo al Padre tutto se stesso, vittima graditissima” (Mediator Dei, 68). Nell’Eucaristia, il nostro sguardo si eleva con profonda fede, umile venerazione e adorazione dinanzi all’augusta persona di Gesù sulla croce. Infatti, il vangelo di san Giovanni (19,37) presenta la crocifissione quale compimento della profezia di Zaccaria: “guarderanno a colui che hanno trafitto” (Zac. 12,10). E’ il sacrificio verso il quale guardò e sperimentò la fede il centurione, quando riconobbe in Gesù il Salvatore: “davvero quest’uomo era Figlio di Dio!” (Mc. 15,39).

L’Eucaristia, con la forza di quanto ripresenta – la più radicale e potente espressione dell’amore di Dio nell’auto-offerta di Gesù, il Figlio di Dio – esige da noi che rivolgiamo il nostro sguardo su di Lui e che proclamiamo la nostra fede in Lui. Questa è la base della fede di Sant’Agostino che con grande chiarezza annuncia che peccheremmo se, prima di riceverlo, non lo adorassimo. Questo mirabile sacrificio di Cristo, il suo auto-spezzarsi per divenire nostro cibo divino, deve essere guardato con grande stupore e profonda fede.

Infatti Gesù predisse che, al momento della sua morte salvifica, dovevamo guardare verso di Lui per riconoscere la Sua divinità – “quando avrete innalzato il Figlio dell’Uomo, allora saprete che Io Sono” (Mc. 15,39). E’ lo stesso verbo usato dal Signore per spiegare “l’innalzamento” qui  con “l’innalzamento” del serpente di bronzo nel deserto fatto da Mosè per salvare il popolo d’Israele a cui fa riferimento Gv. 3,14. E’ interessante notare che in entrambe le occasioni, Gesù si riferisce al riconoscimento della Sua persona nella fede (“perché chiunque crede in Lui” – Gv. 3,15) e (“conoscerete che Io Sono” Gv. 8,28).

E’ guardando al sacrificio di Cristo che viene confermata la fede e si è salvati. Ad ogni Eucaristia in cui l’unico sacrificio di Cristo sul Calvario è ripresentato, nasce la fede e lo adoriamo come Figlio di Dio. E’ un pregustare la nostra salvezza – un pregustare il paradiso. Per questo, un’Eucaristia senza sguardo adorante su Cristo, sarebbe più povera. Diversamente, se i nostri cuori non si innalzano allo stupore della salvezza sulla croce, l’Eucaristia stessa si ridurrebbe a una formalità in più, a uno schiamazzo rumoroso, a una vuota esperienza senza fede e senza gusto. La tendenza, pertanto, a rendere la Messa più moderna e colorita è, come minimo, di cattivo gusto. Se quando lo riceviamo, non lo adoriamo, non sapremmo nemmeno chi è Colui che viene a farci Suoi. Sarebbe un modo di ricevere l’Eucaristia senza senso. Proprio questo il papa sottolinea quando dice “soltanto nell’adorazione può maturare un’accoglienza profonda e vera” (Sacramentum Caritatis, 66).

In questo senso, assicurare una celebrazione devota e contemplata dell’Eucaristia non sarebbe più una questione di scelta, ma di necessità. In questo, personalmente preferirei l’atmosfera devota e orante della Messa tridentina dove la partecipazione dell’assemblea è più sommessa, pacata e raccolta, il che è rispettoso del grande mistero che avviene sull’altare.
Forse è arrivato il tempo di pensare di inquadrare bene che cosa significhi “partecipazione attiva”. Papa Benedetto XVI ha infatti dedicato un capitolo intero su questo tema nella Sacramentum Caritatis. Dichiara il Papa: “conviene mettere in chiaro che con tale parola “partecipazione”, non si intende fare riferimento ad una semplice attività esterna durante la celebrazione. In realtà, l’attiva partecipazione auspicata dal Concilio deve essere compresa in termini più sostanziali, a partire da una più grande consapevolezza del mistero che viene celebrato e del suo rapporto con l’esistenza quotidiana” (Sacramentum Caritais, 52). Questa è adorazione, e considerando in tal modo tutti questi elementi, possiamo affermare che l’Eucaristia non è soltanto per mangiare ma anche per adorare.

 


3. Un’altra obiezione che si era diffusa largamente in certi ambienti, è che l’adorazione non sia conforme allo spirito delle celebrazione eucaristica, o che sia soltanto un’attività pietistica senza nesso con la SS.ma Eucaristia. Tale asserzione che la Chiesa aveva già condannato in passato (can. Trid. 734/724), sembrò riemergere con forza nella riforma liturgica post conciliare, soprattutto sullo sfondo di una riduzione della Santa Messa a semplice banchetto conviviale, a prezzo della dimensione sacrificale.

In effetti, è avvenuto che pratiche quali la Benedizione col Santissimo Sacramento, l’Ora Santa, l’adorazione perpetua fossero giudicate come contrarie allo spirito del Concilio. Già il Concilio di Trento aveva denunciato quelli che rifiutano la tradizione secolare di devozione o culto eucaristico: “Se qualcuno dirà che nel santo sacramento dell’Eucaristia il Cristo, unigenito Figlio di Dio, non deve essere adorato con culto di latria, anche esterno; e perciò non deve neppure essere venerato con una particolare solennità; né deve essere portato solennemente in processione, secondo il lodevole e universale rito e consuetudine della santa Chiesa; o che non deve essere esposto pubblicamente all’adorazione del popolo; e che coloro che l’adorano sono degli idolatri: sia anatema” (canone 734).

Questo canone è conforme al relativo insegnamento di quello stesso Concilio che “l’uso di conservare la santa Eucaristia in un tabernacolo è così antico che era noto anche ai tempi del Concilio di Nicea. Che poi la stessa santa Eucaristia sia portata agli infermi e a questo scopo sia conservata con cura nelle chiese, oltre a essere un fatto sommamente giusto e ragionevole, è anche comandato da molti concili e rientra nell’antichissima consuetudine della Chiesa cattolica. Questo santo sinodo stabilisce perciò che bisogna assolutamente conservare questo uso salutare e necessario” (canone 724).

A questo proposito, è bene ribadire che la pratica di conservare il SS.mo Sacramento per portarlo agli infermi o agli eremiti, è veramente antica. Era un corollario naturale all’antica fede della Chiesa sulla presenza permanente e personale di Cristo nelle specie consacrate dell’Eucaristia. E’ questa fede che ha condotto gradualmente la Chiesa a introdurre il culto formale all’Eucaristia al di fuori della Messa e a quelle pratiche devozionali, quali processioni, atti di adorazione, visite al Signore nella pisside, finestre dalle celle dei monaci da cui potevano osservare e adorare Cristo nel tabernacolo ed infine alla festività del Corpus Domini, l’Ora Santa, la Benedizione col SS.mo Sacramento, le confraternite di adoratori e i congressi eucaristici. Si è trattato di un processo in continuo sviluppo.

La considerazione importante era che, poiché Cristo è presente nelle specie eucaristiche non soltanto durante la celebrazione della Santa Messa ma anche dopo, Egli deve essere adorato e glorificato. Le specie eucaristiche, una volta consacrate, rimangono divine e perciò adorabili – è la presenza visibile di Cristo in mezzo a noi. Una pratica, certamente, che fu ridicolizzata dai riformatori e chiamata idolatria. Giovanni Calvino, ad esempio, che non considerava il pane e il vino vero corpo e sangue di Cristo ma solo un segno o simbolo, riteneva l’adorazione eucaristica praticata dai cattolici, una idolatria. Il loro uso delle sacre specie era quindi limitato solo al rito della comunione e gli avanzi venivano scartati. La stessa posizione più o meno avevano Lutero, Zwingli e Melantone. La Chiesa cattolica è chiara su questo, poiché le devozioni eucaristiche non sono che una conseguenza naturale della sua fede nella presenza permanente e immutabile di Cristo nelle specie eucaristiche. E’ in questa luce che bisogna comprendere la tradizione bimillenaria della Chiesa – l’Eucaristia esiste per l’adorazione così come per la comunione.

Paolo VI ha dichiarato: “la Chiesa Cattolica professa questo culto latreutico al Sacramento eucaristico non solo durante la Messa, ma anche fuori della sua celebrazione, conservando con la massima diligenza le ostie consacrate, presentandole alla solenne venerazione dei fedeli cristiani, portandole in processione con gaudio della folla cristiana” (Mysterium Fidei, 57).

Alcuni purtroppo affermano che il Concilio Vaticano II non ha dato tanta importanza alle devozioni eucaristiche, per cui non merita grande attenzione. In effetti, potrebbe essere questa un’analisi corretta, dato che il documento conciliare sulla sacra Liturgia “Sacrosanctum Concilium”, sia nella presentazione generale, sia nella esposizione sulla SS.ma Eucaristia (cap. II) e degli altri sacramenti e sacramentali, non fa menzione delle devozioni al SS.mo Sacramento. Fa accenno alle devozioni popolari in un breve passaggio (n. 13), ma nulla sulle devozioni eucaristiche. Ciò è in forte contrasto con l’esposizione sul tema che si hanno nei decreti del Concilio di Trento e nell’enciclica “Mediator Dei” di Pio XII. Se sia stata una dimenticanza voluta o accidentale, è una questione aperta. Molto probabilmente, quelle devozioni venivano date per scontate come un dato di fatto e perciò non trattate in modo esplicito. Tuttavia, si sarebbe dovuto fare qualche menzione, data l’importanza dei pronunciamenti del Concilio per il futuro e l’importanza data a queste devozioni lungo i secoli. Tale omissione fu la probabile ragione della succitata pretesa che l’Eucaristia non è per l’adorazione ma per essere mangiata, e che il Concilio non ha dato molta importanza a quell’aspetto di culto liturgico.

Anche questo può aver spinto Papa Paolo VI a lamentarsi nell’enciclica sulla Santa Eucaristia del 3 settembre 1965, Mysterium Fidei che “non mancano… motivi di grave sollecitudine pastorale e di ansietà, dei quali la coscienza del Nostro dovere Apostolico non ci permette di tacere. Ben sappiamo infatti che tra quelli che parlano e scrivono di questo Sacrosanto Mistero ci sono alcuni che circa le Messe private, il dogma della transustanziazione e il culto eucaristico, divulgano certe opinioni che turbano l’animo dei fedeli ingerendovi non poca confusione intorno alle verità di fede” (MF 9-10). Il Papa prosegue poi spiegando che cosa intende per “opinioni” e tra queste nomina “l’opinione secondo la quale nelle Ostie consacrate e rimaste dopo la celebrazione del sacrificio della Messa, Nostro Signore Gesù Cristo non sarebbe più presente” (Mysterium Fidei, 11). L’errore menzionato dimostra una diminuzione del ruolo della fede eucaristica della Chiesa e della sua pratica di adorazione.

Il Papa continua affermando il valore dell’adorazione eucaristica in modo esteso nell’enciclica. Egli dichiara “la Chiesa Cattolica professa questo culto latreutico al Sacramento Eucaristico non solo durante la Messa ma anche fuori della sua celebrazione, conservando con la massima diligenza le ostie consacrate, presentandole alla solenne venerazione dei fedeli cristiani, portandole in processione con gaudio della folla cristiana” (Mysterium Fidei, 57). Spiega poi con grande dettaglio e citazioni dei Padri della Chiesa, vari elementi di devozione eucaristica (no. 56-65) e il dovere di conservarli. Esorta i Vescovi “affinché questa fede, che non tende ad altro che a custodire una perfetta fedeltà alla parola di Cristo e degli Apostoli, rigettando nettamente ogni opinione erronea e perniciosa, voi custodiate pura ed integra nel popolo affidato alla vostra cura e vigilanza e promoviate il culto eucaristico a cui devono convergere finalmente tutte le altre forme di pietà” (Mysterium Fidei, 65).

E così, alla luce di una quasi totale assenza di menzione sull’adorazione e devozioni eucaristiche nella costituzione conciliare sulla sacra liturgia “Sacrosanctum Concilium”, e alla tendenza riemergente in alcuni ambienti di ridimensionare o rigettare tale fede, questa enciclica di Paolo VI pubblicata ancor prima della conclusione formale del Concilio (8 dicembre 1965), può essere considerata una risposta adeguata a quegli elementi protestantizzanti in seno alla Chiesa e una dovuta correzione certamente, per cui dobbiamo essere grati a Papa Paolo VI.

 


4. Riguardo all’opinione secondo cui non vi sarebbe continuità tra la celebrazione della santa Eucaristia e le relative devozioni, è la stessa Mysterium Fidei che dà la risposta, dichiarando: “la Chiesa professa questo culto latreutico al SS.mo Sacramento non solo durante la Messa ma anche al di fuori di essa” (Mysterium Fidei, 57). Anche Papa Giovanni Paolo II ha spiegato il nesso ontologico tra la celebrazione – ricezione e momenti di adorazione dell’Eucaristia dichiarando che essa “è allo stesso tempo sacramento – sacrificio, sacramento – comunione e sacramento – presenza” (Redemptor Hominis, 20). Sono legate insieme, non è possibile separarle. Infatti, non si può celebrare l’Eucaristia senza essere consapevoli della grandiosità di quanto avviene sull’altare e senza assumere un atteggiamento di timore e di venerazione verso Dio che si offre ogni giorno sugli altari per la nostra salvezza.

Ciò che avviene realmente nella celebrazione dell’Eucaristia è che il sacerdote celebrante, totalmente identificato con il Sommo Sacerdote, Cristo, la cui celebrazione della festa pasquale nella Gerusalemme celeste, circondata dai cori degli angeli continua senza fine, diventa l’”alter Christus” e permette alla festa della nostra redenzione di realizzarsi anche sui nostri altari. L’invisibile sacrificio celeste di amore, dell’”agnello immolato”, scende in modo visibile sui nostri altari – il divino diventa terreno. Papa Benedetto XVI lo spiega come “veritatis splendor”; “Gesù Cristo ci mostra come la verità dell’amore sa trasfigurare anche l’oscuro mistero della morte nella luce irradiante della risurrezione. Qui il fulgore della gloria di Dio supera ogni bellezza intramondana. La vera bellezza è l’amore di Dio che si è definitivamente a noi rivelato nel Mistero pasquale”. (Sacramentum Caritatis, 35). Ciò non può che colmarci di stupore e di adorante venerazione.

Anche ricevere la Comunione richiede fede nella immensità di ciò che sta per avverarsi – il Signore viene a me, o meglio, venendo da me, mi abbraccia e desidera trasformarmi in se stesso. Non si tratta di un semplice atto meccanico di ricevere un pezzo di pane – qualcosa che avviene in un istante. Ma è l’invito a essere in comunione con il Signore: invito all’amore. Il Papa spiega l’adorazione con queste parole testuali: “La parola greca (per adorazione) è proskynesis. Essa significa il gesto della sottomissione, il riconoscimento di Dio come nostra vera misura, la cui norma accettiamo di seguire… la parola latina per adorazione è ad–oratio, contatto bocca a bocca, bacio, abbraccio e quindi in fondo amore. La sottomissione diventa unione, perché colui al quale ci sottomettiamo è Amore. Così sottomissione acquista un senso, perché non ci impone cose estranee, ma ci libera in funzione della più intima verità del nostro essere” (Omelia in occasione della Giornata Mondiale della Gioventù, Colonia, 21 agosto 2005).

L’adorazione quindi è sottomissione per amore ed intimità con il Signore. Ciò significa che accogliere il Signore, l’atto che ci permette l’esperienza del Suo amore al massimo livello, invitandoci a stare con Lui, non può aver luogo se non in un clima di adorazione. E anche l’immolazione di Cristo alla consacrazione del pane e del vino, il culmine del Suo sacrificio per amor nostro, non può non essere un momento che esige adorazione. Per cui si può dire che l’Eucaristia richiede adorazione sia durante la celebrazione sia nel ricevere la Comunione. Afferma Papa Benedetto: “la Comunione e l’adorazione non stanno fianco a fianco o addirittura in contrasto tra loro, ma sono indivisibilmente uno… L’amore o l’amicizia sempre portano con sé un impulso di riverenza, di adorazione. Comunicare con Cristo perciò esige che fissiamo lo sguardo su di Lui, permettere al Suo sguardo di fissarsi su di noi, ascoltarlo, imparare a conoscerlo” (God is near us. Ignatius Press, San Francisco 2003, p. 97).

E’ in questa luce che dovremmo comprendere la famosa frase di Sant’Agostino: “nemo autem illam Carnem manducat, nisi prius adoraverit; peccemus non adorando” – o “nessuno mangia questa carne senza prima adorarla; peccheremmo se non la adorassimo” (Enarrationes in Psalmos 98,9, CCL XXXIX, 1385). Soltanto l’adorazione infatti apre il nostro cuore verso un senso autentico di partecipazione all’Eucaristia, poiché lo dilata all’esperienza del profondo amore di Dio manifestato nell’Eucaristia e verso un’unione vera e profondamente personale con Cristo al momento della Comunione (“Ecco: sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me” – Ap. 3,20).

In questo senso, le parole del Papa sono chiare: “Ricevere l’Eucaristia significa porsi in atteggiamento di adorazione verso Colui che riceviamo. Proprio così e soltanto così diventiamo una cosa sola con Lui e pregustiamo in anticipo, in qualche modo, la bellezza della liturgia celeste” (Sacramentum Caritatis, 66). E’ l’adorazione quindi capace di rendere la celebrazione della Santa Eucaristia e il ricevere il SS.mo Corpo e Sangue di Cristo, pieni di significato e profondamente trasformanti. Altrimenti, si ridurrebbe a puro esercizio meccanico o a cacofonia sociale; un evento dell’uomo e non di Dio, perché l’adorazione fa dell’Eucaristia un’esperienza di grazia divina salvifica e di eternità. Non solo, l’adorazione trova un suo naturale sbocco in tutte le altre devozioni eucaristiche, dando ad esse significato e profondità. Il momento supremo dell’adorazione è l’Eucaristia e fluisce in tutte le devozioni ad essa connesse. L’una dà significato e profondità all’altra.

E’ triste notare come in alcuni luoghi le chiese e i santuari si sono trasformati in piazze da mercato o teatri o sale da concerto. Mi è capitato di entrare un giorno in una cattedrale di un’importante città europea dove vi era gente che aspettava la celebrazione di una Messa nuziale: era come una grande piazza di mercato dove tutti erano impegnati in animata conversazione. Non vi era certo alcun spirito di raccoglimento o il minimo senso di riverenza adorante in preparazione all’Eucaristia. Mi hanno raccontato di una Eucaristia in una chiesa parrocchiale in Germania, dove rappresentavano un dramma teatrale con l’assemblea che partecipava mediante preghiere e scenette, e il parroco faceva il presentatore. Ho chiesto all’amico che mi raccontava la vicenda, che effetto gli aveva fatto, e lui mi ha risposto con le parole “tanto rumore per nulla”.

Dovremmo chiederci se siamo seri sulla fede cattolica riguardo alla transustanziazione e alla presenza permanente di Cristo nell’Eucaristia, se non abbiamo annacquato l’insieme della nostra fede in nome di teorie insignificanti e teologizzare pedante, che cerca continuamente compromessi con il secolarismo e l’ateismo. In conclusione, voglio ribadire con forza che l’Eucaristia non adorata è una contraddizione in sé, e adorazione senza Eucaristia è impossibile – perché Eucaristia e adorazione sono come le due facce della stessa realtà.

 


5. Qualcuno lamenta che l’adorazione eucaristica è troppo privata, troppo personale e perfino troppo silenziosa. Una critica che sembra basarsi su constatazioni erronee: che l’adorazione sia solo privata per essenza e che il culto di Dio debba sempre essere un esercizio comunitario. Ma entrambe le posizioni sono insostenibili. L’adorazione ha anche una dimensione comunitaria, poiché, quando adoriamo il Signore, entrando in comunione con Lui o lasciando che Egli ci stringa a sé, noi diventiamo uniti gli uni gli altri in Lui.

Dichiara Papa Benedetto: “L’unione con Cristo è allo stesso tempo unione con tutti gli altri ai quali Egli si dona. Io non posso avere Cristo solo per me; posso appartenergli soltanto in unione con tutti quelli che sono diventati o diventeranno suoi” (Deus Caritas est, 14). Pertanto, quando io adoro il Signore in privato, mi trovo costantemente in rapporto con gli altri e anch’essi Lo adorano con me. E’ così che si crea la comunione. La preghiera privata non necessariamente toglie dalla comunità. Costruisce la comunità. Inoltre, ogni volta che la Chiesa si impegna nel culto pubblico e in atti di adorazione, è l’intero corpo dei credenti che prega, essendo la Chiesa presente in ogni suo singolo membro. Anche Gesù ha adorato il Padre in privato così come in preghiera pubblica, come differiva il tempio dalla sinagoga. Ne deriva che ogni atto di adorazione privata o comunitaria ha un effetto salutare sia sulla comunità che sull’individuo.

Il culto poi non necessariamente deve essere limitato solo a quello comunitario, può benissimo essere personale. Come detto sopra, Gesù ha passato moltissimo tempo in preghiera da solo. Ciò però non gli ha impedito di farsi vicino agli altri. Anzi, Egli ha offerto la Sua vita per la redenzione degli altri, altruismo al massimo livello. Di conseguenza, l’adorazione non ci toglie e non ci deve togliere dalla preghiera comunitaria o dai nostri doveri comunitari. Ci stringe ancora di più gli uni gli altri nel Signore.

 


6. Vi sono ancora altri che obiettano all’adorazione eucaristica dicendo che c’è sotto una mentalità eccessiva da “solo io e Gesù”. Come già detto sopra, l’adorazione, avvicinandoci maggiormente a Gesù, ci rende più sensibili verso il prossimo. Ciò emerge meglio nella vita di alcuni dei più grandi santi o figure venerabili. Basta fare solo l’esempio della Beata Madre Teresa di Calcutta che voleva che le sue suore rimanessero parecchie ore in preghiera e adorazione davanti al SS.mo Sacramento ogni giorno, prima di recarsi sulle strade ad assistere i malati e i morenti. Era proprio la sensazione della presenza del Signore in mezzo a loro che le riempiva di energia per il quotidiano lavoro. Dinanzi alle critiche rivolte a Madre Teresa sulle troppe ore passate dalle suore in preghiera e adorazione, togliendo loro tempo prezioso, ella rispose un giorno: “se le mie suore non passassero così tanto tempo in preghiera, non potrebbero servire affatto i poveri e i malati”.

Come papa Benedetto ci assicura, l’adorazione “vuole rompere le barriere non solo tra il Signore e noi, ma anche e soprattutto le barriere che ci separano dagli altri” (Sacramentum Caritatis, 66). Nella “Deus Caritas est”, il Santo Padre dichiara: “La pietà non indebolisce la lotta contro la povertà o addirittura contro la miseria del prossimo. La Beata Teresa di Calcutta è un esempio molto evidente del fatto che il tempo dedicato a Dio nella preghiera non solo non nuoce all’efficacia e all’operosità dell’amore verso il prossimo, ma ne è in realtà l’inesauribile sorgente” (Deus Caritas Est, 36).

La preghiera personale non va contro la preghiera comunitaria e neppure l’una esclude l’altra, in realtà si nutrono a vicenda. La preghiera liturgica crea e promuove il rapporto non soltanto tra Dio e la comunità, ma altresì tra Dio e me, facendomi sensibile al bisogno di un costante contatto con il divino nella mia vita. Forse un equivoco in questo senso ha portato alcuni a credere che le devozioni individuali non siano più necessarie, a seguito del grande rilievo dato al culto liturgico e comunitario dopo il Vaticano II. Ma questo non è corretto. La "Sacrosanctum Concilium” dichiara infatti: “La vita spirituale tuttavia non si esaurisce nella partecipazione alla sola liturgia. Il cristiano infatti, benché chiamato alla preghiera in comune, è sempre tenuto a entrare nella propria stanza per pregare il Padre in segreto” (SC, 12). La preghiera liturgica, anzi, è rafforzata e arricchita dalla preghiera personale. L’adorazione del SS.mo Sacramento come personale devozione è dunque importante e aiuta a creare un clima interiore in noi che si nutre di preghiera liturgica e intima partecipazione.

 


Lasciate che concluda con le belle parole del Curato d’Ars, San Giovanni Maria Vianney, vero apostolo di adorazione: “Oh, se avessimo gli occhi degli angeli per vedere nostro Signore Gesù Cristo, che è qui presente su questo altare e ci guarda, come Lo ameremmo! Mai vorremmo andarcene via da Lui. Vorremmo restare sempre ai Suoi piedi; sarebbe pregustare il Cielo: tutto il resto non avrebbe più gusto per noi” (Il piccolo catechismo del Curato d’Ars, Tan Books and Publishers Inc. Rockford, Illinois 61105, 1951, p.41).
Grazie.

 

Roma, 22 giugno 2011

Malcolm Card. Ranjith
Arcivescovo di Colombo


(traduzione dall'inglese a cura di don Giorgio Rizzieri)

 

  

 

di del card. Albert Malcolm Ranjith